martedì 3 luglio 2007

Non impariamo nulla?


Lettera aperta alla scuola
(è dell'anno scorso ma attualissima)


Nel render pubblici solo adesso, dopo oltre sei mesi, questi appunti, ritengo sia stato un errore non farlo prima. La scuola ha bisogno di ogni tipo di contributo alla sua vitalità.


Al telefono un’amica, alla quale confido il mio disagio, mi risponde: “La scuola è così”. Così, come? Ognuno di noi lo sa, lo vede. Troppe cose non vanno, ma non se ne parla, non si affrontano i problemi. E la scuola va sempre peggio. Se la scuola è “così”, non è più scuola.

La scuola è degli studenti e per gli studenti; ma è fatta dagli insegnanti. Non è un lavoro come un altro, questo. Non si può andare per lo stipendio. I docenti sono un po’ agricoltori (semina e raccolto), un po’ al-levatori, al-levatrici: aiutano a far nascere (coscienza e conoscenza). La leva è la domanda. Il verbo chiave è: crescere. Non greggi di pecoroni (esecutori di ordini) ma classi-organismi in cui ogni individuo è unico e democraticamente uguale agli altri.

Utopia? O la possibile risultanza di secolari insegnamenti?

Insegnare, già. Un lavoro arduo eppure nobile. La nobiltà stessa della vita, la sua sacralità.
In tal senso, insegnare è sacerdozio, letteralmente “far cosa sacra”. Sacro è il cosmo “cum tucte le sue creature”. Insegnare è faticoso, ma la fatica più grande è stare in questa rete bucata dai rapporti inautentici, i cui fili si tengono per forza, dove l’egoismo è debolezza endemica. Pochissimi pensano ai ragazzi.
Vedo l’apatia e, poi, la pretesa di aver vivacità in classe da “loro” (ne parlano come fossero i nemici e ti mettono sull’avviso: stai attento, non ti fidare – il che vuol dire non dare fiducia, non instaurare rapporti umani. Triste.).
Vedo menefreghismo e calcolo, e la pretesa poi di avere impegno. I ragazzi guardano. Vedono anch’essi furbizia e squallore umano, regole scritte ma non osservate da chi le pretende, docenti che arrivano con mezz’ora di ritardo, supplenze che sono buchi, a volte solo firmate. Vedo C.d.C. con troppi assenti, ritardatari (salvo poi imputare agli altri il ritardo!). Vedo persone, il cui verbo dovrebbe essere “collaborare”, per ore ed ore su una sedia; non so come non gli scoppi il cuore per l’inedia, e a volte mi pare che stia per scoppiare, come un pallone che si riempie di polvere. Che vive a fare, uno/a così? Vedo gente che fuma in Presidenza, in Segreteria, nei corridoi, come se nulla fosse; colleghi - ai quali chiedo “Per favore, sai, è per le regole” - che continuano a fumare e quando mi vedono mi allisciano, mi prendono con le buone, come i bambini, poi dopo un po’ non mi salutano più, e mi guardano con l’espressione di chi pensa: “Che rompiscatole”!

Gli alunni hanno le loro belle responsabilità. Vedo i mozziconi di sigaretta infilate nelle porte dei bagni (!), vedo le porte delle aule scassate dai pugni, vedo altre cicche da secoli negli interstizi del tappetino all’ingresso di via Pascoli perché tutti fumano davanti alla porta… se un cane avesse l’idea di accoccolarsi là (ma nessun cane l’avrà), la nicotina lo farebbe fuori in mezz’ora.
Il plesso di via Pascoli vive d’inerzia da mesi, non vi è nessuna spinta, nessuno stimolo vitale. Personalmente, sono stanco e avvilito. In cambio del mio impegno e del mio desiderio di regole, ho ricevuto da troppa gente troppe mortificazioni. Il Preside non è più venuto, innumerevoli impegni, ma intanto… Fisicamente, il plesso già non è uno sballo. Ma si potrebbe rendere più accogliente, no? All’ingresso, faccio un esempio, quelle poltroncine rosse sgangherate. E le pareti color cacca rancida? E il cortile-palestra con la rete tutta sbrindellata? E i gabbiotti dei bidelli di non so che anno? Non c’è una pianta, non c’è un quadro… tranne quello dei ragazzi diversabili. Più veri, più sereni, spesso più educati e più educ-abili. E ai quali dobbiamo coscienza e allegria.
Le aule. Abbiamo dato almeno una rinfrescata al primo piano (da soli, i ragazzi e due-tre docenti ma forse è stato meglio così); non ci sono attaccapanni, armadietti; i banchi e le cattedre si aprono; possiamo essere abbastanza sicuri solo del gesso. Non ci sono cartine geografiche, tanto meno storiche, non ci sono strumenti di classe, dizionari e altri sussidi, TV… figuriamoci il PC di classe! Eppure trascorriamo molte ore qui, e sappiamo che un buon ambiente favorisce l’apprendimento.
Vedo, ad ogni campanella, intere classi nei corridoi: ogni 50 minuti una ricreazione. Alunni che si azzuffano, che urlano. Spesso esco per chiedere silenzio e vedo costantemente classi scoperte, con gli alunni che non fanno nulla, stanno davanti alle porte inermi, insignificanti, mi ricordano un po’ le vecchìne davanti alle porte delle case dei paesi.
Molti ragazzi non sanno leggere, scrivono male, specie quelli di Carini, ma tutto il territorio è povero di stimoli.

Qui ha dominato il latifondo, cioè i ricchi proprietari terrieri che hanno sfruttato i contadini e fatto credere loro che era tutto giusto così, poi sono diventati i borghesi di Palermo, e hanno stretto la mano alla mafia, se non addirittura baciato… ed ora? Beh, la bomba l’hanno messa a Capaci, a due passi, mica a Como (ovviamente anche Como ha le sue brave… magagne, lo diceva già il Manzoni!).
Da qualche parte lo sanno, i ragazzi, però non si fanno domande, anche perché nessuno dice loro che non è vero che le risposte non ci sono. Nessuno dice loro che si comincia dalle piccole cose, dalle piccole regole di ogni giorno, e che le regole sono tali quando sono condivise e rispettate da tutti. Questa è la legalità, o no?
Nessuno dice loro che bisogna curare, tutti, le cose di tutti, che il collettivo diventi coscienza, a cominciare dall’aula, dal banco, dai propri quaderni, dal proprio spazio interiore. Il metodo di studio è la ricerca di un ordine che non è nevrosi ma armonia, tende all’ordine cosmico, un organismo che è come il corpo, e di cui la classe, la scuola, la società, può essere specchio. Un organismo in cui, come nella lingua, le parti del discorso interagiscono.
Nessuno glielo dice perché la società va in frantumi e c’è chi vuole che ciò avvenga, che il popolo consumi, che spenda tutto quello che guadagna nei luoghi dove i padroni gli ri-succhiano di nuovo tutto. In tali condizioni i genitori sono spesso già abbastanza frustrati per poter educare i figli.

E a scuola? Nessuno dice nulla ai giovani perché il corpo docente è un corpo malato.
E’ affetto da un mal-essere che la politica non sa e non può curare, perché anche la politica è malata. Organismi deboli, infetti, non possono aiutarsi; anche perché la prima qualità che perdono è la più importante: la reciprocità. E la comunità si disgrega. E’ in atto la metastasi e forse è un bene, è la cosa migliore se questa scuola, se questa società muore: solo così forse può rinascere!

Intanto, però, la scuola non comprende, ed attua meccanismi inconsci, primitivi. Per esempio, il meccanismo vittimario (v. Girard): il capro espiatorio, che è in buona sostanza un atto di vigliaccheria collettiva.
E tuttavia, non dobbiamo cedere alla cultura della morte; al contrario, dobbiamo seguire la vita perché, nonostante tutti i morbi, siamo vivi, ed abbiamo anzi il compito e il dovere di difendere l’energia vitale.
Vedo ragazzi che stanno male – lo vedo perché ridono troppo o non ridono mai o prima ridevano e ora non ridono più, è successo qualcosa a casa… Ne ho sentite di storie, ne ho lette nei temi in cui a volte per la prima volta si aprono. Loro capiscono chi sono e sanno quello che penso, glielo dico in classe, o lo capiscono nei cerchi. A volte ci si parla cogli occhi, e il cuore si sente solo da vicino, o nel silenzio.
Vedo Consigli di Classe con troppi sguardi ai polsi. Vedo Collegi Docenti in cui una persona parla per mezz’ora e poi altre cento, in pochi minuti, spesso senza discutere, decidono cose importanti per la vita della scuola.

Vedo tutto questo e mi chiedo: ma non abbiamo imparato nulla?
Nulla ci hanno insegnato i tanti maestri, e mi vengono in mente adesso, così, alcuni nomi Dewey, Piaget, Dante, Manzoni, Danilo Dolci, Socrate, Platone e Giordano Bruno e Einstein e Rilke e Buddha e Gandhi e Gesù di Nazareth…
Non ci hanno insegnato nulla? O siamo noi che non impariamo? E i mille maestri di tutti i giorni, e i volti, e gli sguardi, i segni e le innumerevoli esperienze di vita? Dico vita e non morte, la morte non porta esperienze, la morte cancella le esperienze.
Che se ne fanno, gli esseri umani, di tutti questi semi?

La scuola è degli studenti, per gli studenti…
E noi, da loro, da chi ci assicura il lavoro e ci dà l’opportunità di crescere, sì, noi insegnanti, dai ragazzi, che dovremmo e potremmo ascoltare ogni giorno, non impariamo nulla?
Daniele Moretto
Palermo, Marzo/Maggio 2006
ISTITUTO ALBERGHIERO
"UGO MURSIA"
CARINI (PA)

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